TRA LA CONCHIGLIA E LA STELLA – Palazzo Grillo, Genova

Le idee di Bolamba sono i grandi temi della negritudine; ove si mescolano la luna, il sole, il fulmine, il coccodrillo, il serpente, il sogno, il desiderio, la danza e la morte. In questo mondo trasparente non c’è soluzione di continuità tra la conchiglia e la stella. Il poeta e’ rimasto Negro e Bantù. Le sue poesie sono eruzioni di Immagini con una sintassi di sovrapposizione che polverizza la sintassi stessa,e spesso, come nella poesia popolare negra, le immagini sorgono nominando semplicemente le cose, alla sola condizione che siano ritmate.
 Léopold Sédar Senghor

La Négritude movimento filosofico, culturale, letterario e ideologico del mondo nero francofono elaborato negli anni Trenta del secolo scorso di cui Senghor fu uno degli ideatori, esaltava l’unicità, l’essenza della natura e spiritualità africane rivendicandone la dignità e il valore rispetto alla cultura e alle tradizioni del mondo occidentale, riferendosi alla riscoperta e al recupero di pratiche, credenze e valori autenticamente neri come resistenza alla cultura del “padrone bianco” da parte dei neri di discendenza africana di tutto il mondo.
Benché il movimento fosse più culturalmente e politicamente complesso di quanto si possa affrontare in questo contesto, ho trovato in ognuno dei quattro fotografi presenti in mostra, un autentico e sincero desiderio di ricerca del valore di tutto ciò che è custodito nelle memorie e nelle pratiche dei popoli africani.

La decisione di Martina Bacigalupo di estraniarsi e di non avallare il modo occidentale di esercitare il potere in Africa attraverso la macchina fotografica dove il contenuto dell’immagine è spesso controllato dal fotografo e dalla sua idea di rappresentazione del soggetto, la porta a cercare di eliminare il suo sguardo e quindi la decisione di che cosa viene raffigurato.
Nelle immagini del progetto Dispersi dove uomini e donne stringono davanti a se dei fogli bianchi con sopra scritto il nome di uno dei familiari dispersi durante la devastante guerra civile del Nord Uganda fra il 1987 e il 2008, si raccontano con discrezione, quasi in punta di piedi, storie di dolore e assenza. L’idea che diventa immagine e l‘immagine che a sua volta diventa simbolo iconologico di storie politiche, religiose e sociali.

Con Voodoo Bruno Cattani ci porta in Benin e in Togo dove la religione più diffusa è il Vooddo, tramandata di generazioni in generazioni. Nulla a che fare con con la magia nera come erroneamente si potrebbe pensare; il Voodoo ha forme diverse da regione a regione e si manifesta con rituali e danze che non hanno mai un fine malevolo, al contrario possono avere scopi educativi e promuovere atteggiamenti morali.
Le immagini sfuggono da qualsiasi classificazione di reportage, mostrano l’anima di ogni soggetto ritratto e ne custodiscono in qualche modo la preghiera. Bancarelle sovraccariche di teste di animali, pietre, corna e radici si mischiano a maschere coloratissime o a elaborati travestimenti simili a pagliai. I colori accesi si fondono in una unica vivace coreografia piena di significati nascosti. La parola “Voodoo” è da alcuni tradotta come “segno del profondo”, così come è profonda la sua tradizione, fatta di simboli, disegni e segreti antichi come la creazione del mondo.

Patrick Willocq si immerge in un rito di iniziazione; Songs of the Walé è sia reportage che testimonianza artistica che vuole risultare più vicino possibile all’esperienza dei Pigmei Ekonda e Bantù della Repubblica Democratica del Congo. Il momento più importante nella vita di una donna Ekonda è la nascita del suo primo figlio. La giovane madre, chiamata Walé (madre primipara), torna dai suoi genitori per rimanere reclusa da due a cinque anni. Il rispettare vari tabù, soprattutto sessuali, le fa acquisire uno status simile a quello di un patriarca, la fine del suo isolamento è caratterizzato da danze e canti rituali altamente codificati, che sono di volta in volta, una creazione unica per ogni Walé.
Per garantire un’iconografia visiva culturalmente accurata, Willocq come sempre, ha lavorato insieme alle comunità locali, trasformando le donne Walé in attrici nelle sue mise en scenes collaborando con artigiani del posto per costruire i grandi set utilizzando materiali di provenienza locale.
La sua interpretazione e rielaborazione dei sogni, delle canzoni e dei rituali delle donne Walé sono di sensibilità ed empatia stupefacenti. Molto più potenti di qualsiasi altra fotografia documentaristica sull’argomento, e rispecchiano in ogni modo possibile tutte le riflessioni sulla memoria, le tradizioni e pratiche di questi popoli.


La produzione del sapone, realizzato con gli scarti della lavorazione del cacao, diventa occasione per le donne della comunità nel villaggio di Medoh, a circa 300 km da Abidjan in Costa d’Avorio, di emanciparsi e di migliorare sensibilmente, grazie a un lavoro riconosciuto e retribuito, la propria condizione sociale. Il racconto di questa storia è affidato alle immagini di Francesco Zizola attraverso una narrazione capace di andare oltre al reportage.
Le tre grandi immagini in mostra suggeriscono un punto di vista più approfondito sulla specificità dell’Africa attraverso gli esseri umani che la abitano. L’operazione di Zizola consiste, anche grazie al forte ingrandimento ed altissima definizione, nel mettere al centro in modo fotograficamente ineludibile la persona, l’essere umano, rendendolo scevro di ogni elemento riferito al contesto e donandogli una dimensione tale da non poter essere ignorato come soggetto; attraverso un uso concettuale della fotografia riaffermare la centralità dell’Africa ed in particolare l’unicità di queste donne nel mondo contemporaneo.


Il pensiero scorre su ogni immagine dei quattro autori e su come, pur non essendo africani, riescono a portare con se l’insieme specifico delle qualità della Négritute, trasformando la loro macchina fotografica in uno strumento di straordinaria semplicità concettuale: quella di porre al centro dell’attenzione il loro sincero e discreto approccio verso le persone, la loro storia, la loro cultura, il loro patrimonio, le loro vite e i loro desideri.

I gesti di questi uomini e donne appaiono immancabilmente misurati e calibrati, diventando simbolo di un’intera popolazione, possibilmente di un’intera nazione, evitando di cadere nella trappola dell’omologazione e dello stereotipo, determinati a perseguire la difesa e il riconoscimento della profonda dignità dell’individuo.

Clelia Belgrado, ottobre 2021